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tratto dall’articolo di Carola Benelli e Zeno Regazzoni

Mindfulness significa portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Mindfulness è quindi un processo che coltiva la capacità di portare attenzione al momento presente, consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987).

Gli elementi costitutivi della Mindfulness, che emergono dalle definizioni riportate sopra (consapevolezza e attenzione) evidenziano quale sia la finalità della pratica Mindfulness, e quindi la sua tensione etica: l’obiettivo è quello di eliminare la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Secondo la tradizione originaria, la pratica della Mindfulness dovrebbe permettere di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Le origini della mindfulness: la tradizione buddista

Le origini di ricerca della consapevolezza non possono essere ricondotte ad un contesto geografico e temporale preciso, poiché sono rintracciabili, seppure con nomi diversi, in un ampio territorio compreso tra la Cina e la Grecia, in un periodo compreso tra 2800 e 2200 anni fa. Così afferma Amadei (2013) aggiungendo che, in fondo, il monoteismo di Zarathustra in Persia, il Giainismo di Mahavira e Parshva e il Buddhismo in India, il Confucianesimo e il Taoismo in Cina, gli insegnamenti dei profeti ebraici in Palestina e la filosofia greca sono tutte tradizioni che hanno contribuito a mettere a fuoco ‘una pausa di libertà, un respiro profondo che porta con sé una consapevolezza estremamente lucida’ (Amadei, 2013) – in una parola, ciò che oggi in Occidente va sotto il nome di mindfulness.

La dottrina e la pratica meditativa buddista costituiscono probabilmente la tradizione che più di tutte incarna ed esplicita il tema della consapevolezza. Gli insegnamenti di Buddha, che vano sotto il nome di Dharma, indicano i fattori mentali che consentono all’individuo di cogliere l’essenza e la natura di ciascuna esperienza: l’aspirazione, la fiducia, l’attenzione, la discriminazione e, naturalmente, la consapevolezza. Antiche concettualizzazioni della mindfulness possono essere rintracciate in numerose scritture buddiste come l’Abhidhamma, secondo quanto riportato da Kiyota (1978) e la Vishuddimagga (Buddhaghosa, 1976). Si tratta di testi di filosofia e psicologia buddiste, il particolare il primo costituisce una sorta di compendio di psicologia e filosofia, mentre il secondo ha la natura di un trattato specifico sui temi della meditazione.

Mindfulness originariamente traduce il termine sanscrito sati, di grande ampiezza semantica e difficilmente traducibile con una sola parola. Sati è memoria del presente e presenza mentale, è conoscenza di ciò che accade in campo fenomenologico (Bodhi, 2011). Sati, nella tradizione buddista, è una facoltà che occorre coltivare come strada per giungere alla riduzione delle sofferenze umane, che sono considerate connesse ad una percezione erronea di un io individuale permanente. Superare questa illusione permetterebbe il raggiungimento di un equilibrio emozionale e di un benessere psicologico duraturi.

Per raggiungere tale fine, la tradizione buddista non raccomanda un cambiamento della realtà esterna, quanto piuttosto un mutamento dell’individuo stesso a livello cognitivo ed emotivo, per correggere gli errori che la mente umana commette di frequente quando non sia stata allenata e disciplinata (Gethin, 2001). La via è dunque prima di tutto pratica, fondata su una capacità innata, ma coltivata con disciplina giorno dopo giorno, come riportato negli insegnamenti di Buddha (Gnoli, 2001).

Come sostiene Chiesa (2013) nella prospettiva della tradizione buddista la mindfulness è consapevolezza lucida di ciò che sta accadendo in campo fenomenologico. Lo sviluppo di tale abilità è connesso alle pratiche meditative, sia di tipo concentrativo che di tipo ricettivo. Il praticante deve familiarizzare con entrambe le prospettive, imparando così ad ancorare la mente all’esperienza presente, liberandosi da proiezioni, incomprensioni ed errori. Un’attitudine di accettazione facilita il processo e al tempo stesso ne è una conseguenza.

L’arrivo della mindfulness in Occidente: il lavoro di Kabat-Zinn

Gran parte delle idee, delle pratiche e degli interventi che oggi vanno sotto il nome di mindfulness sono il frutto di un percorso iniziato con gli studi pionieristici di Jon Kabat-Zinn, un biologo e professore della School of Medicine dell’Università del Massachussets che, a partire dal 1979, ha sviluppato un protocollo per introdurre la meditazione di consapevolezza come intervento in contesti clinici.

Era convinzione di Kabat-Zinn, infatti, che la pratica di meditazione avesse il potere di trasformare in modo duraturo l’esperienza individuale della sofferenza e dello stress, offrendo un’alternativa alle strategie orientate alla risoluzione dei problemi che sono profondamente radicate nella cultura occidentale. L’orizzonte teorico in cui è indispensabile inquadrare le intuizioni e le ricerche di Kabat-Zinn, la messa a punto del programma MBSR e la fondazione della Clinica dello stress è quello della medicina mente-corpo. La relazione tra la mente e il corpo, tra i pensieri e la salute, costituisce una premessa fondamentale per comprendere la natura e lo scopo di questo programma.

Nonostante Kabat-Zinn avesse grande esperienza personale di pratica meditativa, la volontà di introdurre la meditazione di consapevolezza in contesti come gli ospedali, le cliniche e i centri sanitari imponeva un’operazione di adattamento delle pratiche tradizionali.

Innanzitutto occorreva che la pratica fosse accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti, o comunque facilmente adattabile a condizioni mediche particolari. Questo significava, per esempio, proporre tempi, concentrazione e movimenti compatibili con condizioni di sofferenza di varia natura dei partecipanti. Si è inoltre ritenuto importante evitare pratiche dissonanti rispetto alla cultura e allo stile di vita occidentale, poiché questo avrebbe probabilmente ridotto la volontà di partecipare agli incontri e soprattutto di praticare individualmente tra un incontro e l’altro.

Infine, poiché il protocollo, in questa prima fase, riguardava la realtà ospedaliera, era indispensabile che seguisse degli standard condivisi dalla medicina occidentale e ne rispettasse alcuni principi fondamentali (Giommi, 2014).

Sulla base di queste esigenze, la mindfulness si spogliava delle sue connotazioni spirituali e morali, rinunciava ad essere parte di un cammino per l’illuminazione e si definiva come un’attenzione focalizzata, rivolta al momento presente e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Così facendo, si apriva la possibilità di lavorare con i pazienti difficili attraverso pratiche di consapevolezza al tempo stesso antichissime e adatte al mondo occidentale.

Il primo mindfulness training: il programma MBSR

Il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) nasce dal lavoro di Jon Kabat-Zinn a partire dagli anni Settanta. Il programma di intervento è stato ideato per pazienti affetti da dolore cronico o malattie terminali ma è stato in seguito applicato con successo ad altre condizioni cliniche (fisiche e psicologiche). Il programma originario è stato mantenuto nella sua struttura fondamentale. Sono previsti otto incontri con frequenza settimanale (per un totale di due mesi) della durata di circa due ore e mezza, cui si somma una giornata intensiva di pratica, della durata indicativa di otto ore, nella seconda metà del programma. Il programma prevede una dimensione di gruppo, in genere composto da trenta persone, tra cui due istruttori che abbiano un adeguato profilo professionale e un percorso personale di meditazione alle spalle.

La maggior parte del lavoro che si richiede ai partecipanti deve essere svolto nel corso della settimana, individualmente, con un impegno che si aggira attorno ai 45 minuti al giorno. Verso la metà del programma, gli istruttori propongono ai partecipanti alcuni brevi momenti educativi, nel corso dei quali si riportano risultati significativi rintracciabili in letteratura sul tema dello stress. Questi momenti non costituiscono comunque il fondamento del percorso: l’apprendimento esperienziale risulta l’elemento distintivo e, si potrebbe dire, il cuore del Mindfulness Based Stress Reduction e dei programmi da esso mutuati.

Gli incontri sono costruiti su due elementi principali: da un lato la pratica, dall’altro la cosiddetta inquiry o esplorazione. Tutte le sedute, ad eccezione della prima, iniziano con un momento di pratica, di durata compresa tra 45 minuti e un’ora. Nel corso degli incontri si sperimentano pratiche diverse che i partecipanti seguiranno anche a casa.

Il tempo rimanente è dedicato all’inquiry, cioè alla condivisione delle esperienze vissute nella pratica durante l’incontro o in quella individuale a casa. Gli istruttori guidano questi momenti di riflessione e condivisione, invitando allo scambio e ad un atteggiamento di curiosità e non giudizio. Per tutto il tempo dell’incontro in cui non si è esplicitamente invitati a condividere attraverso la parola, i partecipanti mantengono un atteggiamento di silenzio e stabiliscono un’intenzione di piena presenza.

Per sottolineare l’attitudine differente cui il gruppo si impegna nel corso dell’incontro, l’inizio e la fine delle sedute sono segnate da brevi momenti di raccoglimento utili per demarcare la seduta rispetto al resto della giornata. Il suono dei cimbali scandisce i differenti momenti, ma si tratta di fatto dell’unico elemento di evidente matrice orientale, poiché in genere gli spazi scelti per gli incontri sono piuttosto neutri, arredati unicamente con sedie ed eventualmente tappetini per le pratiche a terra. Gli esercizi si svolgono ascoltando la voce dell’istruttore che guida il partecipante nella pratica; per la meditazione a casa, il gruppo riceve delle registrazioni ogni settimana.

Mindfulness e neuroscienze

Uno dei principi su cui si basa tutto l’apparato concettuale della Mindfulness riguarda l’unione mente/corpo: tale rilevanza è basata ad esempio sulla consapevolezza che il riconoscimento e la descrizione delle sensazioni e delle percezioni del corpo veicolano informazioni riguardo alla sfera cognitivo-emotiva. Non stupisce, quindi, che un ramo della ricerca sia stato espressamente dedicato allo studio dei meccanismi cerebrali che sottendono un orientamento mindful.

Una lettura interessante viene da Siegel, il quale ritiene che alla base di un funzionamento mindful ci sia l’integrazione neurale che influenza e viene influenzata dalla consapevolezza di Mindfulness. Secondo l’autore:

La consapevolezza dell’esperienza che facciamo momento per momento ci dà la possibilità di sentire e accettare direttamente la nostra esperienza mentale. Questo stato di consapevolezza può coinvolgere in uno stato integrato tra varie regioni del cervello, incluse aree importanti della corteccia e le aree subcorticali del sistema limbico e del tronco encefalico. L’integrazione neurale, in parte condotta da queste regioni frontali, può essere essenziale per creare un equilibrio basato sull’autoregolazione. […] Questi percorsi di integrazione possono giocare un ruolo cruciale per il benessere.

(D. J. Siegel, 2009).

È possibile, quindi, ritrovare nella meditazione di Mindfulness un’attivazione contemporanea delle aree cerebrali frontali adibite alle capacità esecutive e di allerta, che inizialmente avrebbero la funzione di indirizzare e sostenere l’attenzione, e in seguito quella di sostenere l’intenzione di proseguire nella consapevolezza al momento presente, attraverso l’influenza sui processi decisionali.

Via via che la Mindfulness si è diffusa nel mondo scientifico e psicologico e si è imposta anche all’interno del Cognitivismo, le Neuroscienze hanno iniziato a occuparsene per studiarne gli effetti sul cervello dei praticanti. Le ultime ricerche suggeriscono come la Mindfulness promuova cambiamenti funzionali nel cervello mediante la neuro plasticità.

Haselkamp in uno studio del 2012 conferma questa ipotesi e asserisce che questi cambiamenti nella connettività funzionale siano duraturi nel tempo.

Dimostra infatti come praticanti con molti anni di meditazione siano caratterizzati da una maggiore connettività all’interno delle reti attenzionali e tra queste e le regioni prefrontali mediali. Questi dati secondo Haselkamp causerebbero un maggior sviluppo nei praticanti mindfulness delle abilità cognitive, nel mantenere l’attenzione e nello svincolarsi dalle distrazioni.

Luders nel 2012 ha condotto una ricerca in cui voleva indagare gli effetti cerebrali della meditazione a seconda del numero di anni di pratica. I risultati suggerivano come meditando per molti anni avvenisse un aumento di spessore e un potenziamento dei lobi frontali e in particolare della corteccia prefrontale mediale. Quest’ultima dialoga ricevendo informazioni e dando indicazioni con il cervello emotivo (sistema limbico) e con il più arcaico cervello rettile (rinencefalo), favorendo l’integrazione fra le funzioni esercitate da queste aree. Le modifiche al cervello avvengono per mezzo di cosiddette pieghe corticali dette ‘girificazioni’, ossia la formazione di giri e solchi cerebrali.

I ricercatori ritengono che la formazione di queste pieghe possa promuovere e valorizzare l’elaborazione neurale (Luders , 2012). E più girificazioni si formano più il cervello riesce a lavorare meglio – un’efficienza che si mostra in una migliore elaborazione delle informazioni, facilità nel prendere decisioni e migliore memoria.

Luders nel suo studio aveva dimostrato una correlazione tra gli anni di meditazione e la quantità di piegature corticali formatesi nel tempo: l’osservazione delle scansioni ha mostrato significative differenze in base agli anni di pratica meditativa.

Nello specifico si sono riscontrate maggiori girificazioni nelle persone che praticavano la meditazione, rispetto a coloro che non meditavano.

In più questi solchi corticali erano maggiori con l’aumentare degli anni di pratica meditativa. ‘La correlazione positiva tra la girificazione e il numero di anni di pratica sostiene l’idea che la meditazione aumenta la girificazione regionale del cervello‘, conclude Luders.

Di conseguenza coloro che meditano da più anni tramite una maggior profilatura della corteccia cerebrale sarebbero in grado di trattare più velocemente le informazioni rispetto a chi medita da meno anni e a chi non pratica la meditazione.

Questo è stato confermato da Hauswald che nel 2015 ha trovato ulteriori conferme di come lo spessore corticale sia aumentato per i praticanti di mindfulness.

Questi e altri studi dimostrano come le Neuroscienze utilizzando le loro conoscenze e strumenti come la Risonanza Magnetica e l’Elettroencefalogramma possano chiarire sempre più il ruolo che le pratiche meditative come la Mindfulness possono avere anche sul cervello dei praticanti.

Per raggiungere un livello conoscitivo sempre più elevato in effetti all’interno delle Neuroscienze è nata una branca che si occupa in modo specifico della Mindfulness. Norman Farb in questo senso può essere considerato il capostipite di questo settore delle neuroscienze con il suo contributo ‘Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference‘ del 2007.

Visto che si parla di Rivoluzione Mindfulness è giusto indagare in profondità da un punto di vista sperimentale e scientifico la portata di queste pratiche sull’essere umano.

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